Dell’incorruttibilita’ dell’arte

Vita, opere, misteri, magie e miracoli di Marco Bravura, mosaicista ravennate.

Quando penso a Marco Bravura penso alla vita, al rapporto ineludibile che in alcuni artisti si crea fra la loro vita ed il loro personale percorso artistico. Non è un’identità così scontata. Non è così evidente per tutti gli autori.
In particolare, riflettendo sulla sua opera, mi torna alla mente un pensiero di Blaise Pascal: “Quando una persona non ama troppo, non ama abbastanza”.
Marco ha amato. Molto. Affamato di vita e di esperienze. E ha sofferto. Tutto questo lo si avverte nel suo modo ribollente di costruire la forma attraverso il mosaico.
Per questo mi piace ascoltare i suoi lavori. In essi si riconosce tutto il vissuto di un uomo curioso e appassionato, che ha saputo vivere la propria vita esorcizzando fantasmi e paure, dando libero corso alle emozioni, e che, alla fine, ha raccolto il proprio vissuto conferendogli, attraverso l’immagine musiva, i colori di un sogno meraviglioso. Ma anche sottilmente terribile.
Bravura riesce a sognare e a sorridere anche nei momenti in cui il vento sembra lacerarti.
Da giovane egli riuscì, superando le resistenze dei suoi familiari che avrebbero voluto per lui un tranquillo futuro da geometra – il padre, celebre cantante d’opera degli anni trenta, mai avrebbe voluto che Marco diventasse un artista -, a frequentare e diplomarsi all’Istituto Statale d’Arte per il mosaico di Ravenna. Successivamente si trasferì a Venezia, dove studiò presso l’Accademia di Belle Arti.
Per mantenersi, durante il periodo veneziano, Bravura dipingeva piccoli dipinti per i turisti. Non ho mai visto alcuno di quei lavori, ma immagino fossero intrisi del suo amore per la luce e per la bellezza. Dopo una lunga serie di viaggi, che lo hanno portato in varie parti del mondo, un matrimonio e tre figli, Marco torna a vivere stanzialmente nella sua Ravenna, apre un proprio atelier, e inizia una produzione artistica costante legata al mosaico.
Verso la fine degli anni Ottanta egli intraprende una proficua collaborazione col poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra, rapporto di amicizia e di intenti (il desiderio comune di ridare vitalità alle prassi artistico-artigianali proprie della Romagna, tra cui il mosaico occupa un posto di primo piano), oltre che di sensibilità, di affinità artistica, che continua a dare frutti importanti ancora oggi.
I primi lavori realizzati su progetto grafico di Guerra sono alcuni Camini (1989) che ornano gli interni di importanti ristoranti e Hotel romagnoli. Inoltre è da ricordare una serie di mosaici da cavalletto in cui Bravura traduce musivamente dei disegni zoomorfi del poeta (1990-96). Si tratta di soggetti semplici ed evocativi, resi con levità cromatica, alcuni dei quali sottolineati da liriche frasi di Guerra.
Bravura è riuscito a catturare perfettamente nelle sue tessere lo spirito dello scrittore, a trasmetterne il senso attraverso questi mosaici dalla sensibilità orientale. Gli smalti e i marmi di cui si compongono vivono in un’orchestrazione rapsodica in cui le cromie si stemperano increspandosi come accarezzate da odorose brezze marine.
La cornice, in queste opere, perde il proprio valore di limite dell’immagine dialogando con essa, recuperandone i colori ed il loro movimento, divenendo parte integrante della visione.
La collaborazione fra Tonino Guerra e Marco Bravura ha portato anche alla realizzazione di un altro lavoro di notevole interesse: la Fontana della chiocciola per Sant’Agata Feltria (1994). Si tratta di un’opera monumentale che vive nell’ambiente, inserita nel tessuto urbano.
Bravura ha rimarcato lo sviluppo spiraliforme della chiocciola, che si conclude con l’allungarsi obliquo in altezza della sua parte terminale.
L’acqua percorre il corpo concavo dell’animale e ne muove le superfici, interamente ricoperte di mosaico, facendole vibrare e conferendo a quest’opera una dimensione di presenza viva e vitale, immersa nell’aria e nella luce del paese.
La Chiocciola è una celebrazione della lentezza, nel rimpianto di essa che regolava un mondo modellato a misura umana in cui azioni e sentimenti avevano ancora un valore che superava l’istante, contro l’ossessione della velocità, la paura del ritardo nei confronti di una realtà sempre in corsa e per questo inafferrabile.
L’artista, contemporaneamente ai lavori in cui collabora con Guerra, sviluppa anche opere proprie, animate da un clima visivo, formale e cromatico, differente come, ad esempio, gli Arazzi (1989-96). Sono mosaici che vanno osservati in penombra, le superfici percorse da una luce smorzata.
Rispetto ai lavori analizzati in precedenza, il colore qui diventa più denso, carnale, le cromie si fanno sontuose, opulente, in un’incessante commistione di materiali eterogenei. Si fondono le paste degli smalti, dai bagliori profondi, a volte inquietanti, alla luce più chiara degli ori, alle murrine, alle perle più strane, a creare immagini di raffinatezza klimtiana.
Bravura utilizza svariati elementi decorativi riassemblandoli attraverso un personale sincretismo formale che avvicina Bisanzio alla Persia, Ravenna all’India, all’Austria della Secessione.
Negli Arazzi la trattazione delle superfici risplende delle materiche cromie delle tessere in un moto continuo di echi luministici che funzionano in senso barocco, disorientando e coinvolgendo lo spettatore. Sono immagini teatrali nel senso migliore del termine, rivelatrici di percorsi infiniti, dalle cui ombre è difficile staccare gli occhi. Le “cloisons” che li percorrono con i loro andamenti irregolari sembrano strade, sentieri carovanieri da inseguire attraverso le meraviglie della forma e del colore.
Un’opera fondamentale di questo periodo è Bambola orientale. Questo lavoro, dal punto di vista musivo ancora molto vicino alla serie degli Arazzi, ne costituisce il punto d’arrivo preludendo ad una nuova partenza. E’ un’immagine tridimensionale, una figura composta di più parti che le fanno assumere l’aspetto di un bizzarro samurai.
Essa nasce originariamente dall’idea di rendere omaggio a due tra le rappresentazioni musive più famose di Ravenna: l’imperatrice Teodora e l’imperatore Giustiniano, presenti sulle pareti del presbiterio di S. Vitale. L’artista avrebbe voluto realizzare due lavori tridimensionali alludendo nel primo, questo, all’immagine femminile e nel secondo, mai realizzato, a quella maschile.
La Bambola è un’opera misteriosa e seducente, costruita cioè secondo quel gioco delle apparenze che determina il meccanismo seduttivo. Non c’è in essa il desiderio di definire una forma assoluta, di dichiarare una verità certa, ma la coesistenza di tagli differenti d’immagine, di mille rimandi, contrasti apparenti riassorbiti in una logica d’interazione. Così, ad esempio, una certa espressività formale di segno forte, maschile, convive con l’uso di materiali dichiaratamente femminili perfettamente integrandosi con essi. Questo aspetto del lavoro, riscontrabile peraltro nei già citati Arazzi, è determinato anche dalla costante e fattiva collaborazione di Bravura con la figlia Dusciana, allora artista esordiente, oggi anche lei, nel solco della tradizione paterna, affermata artista di estrema sensibilità e finezza esecutiva.
Vorrei guardare questi lavori al tramonto, all’imbrunire, quando le presenze si fanno ombre, diventano ricordi, e la realtà perde i propri contorni trascolorando nel sogno, oppure avvicinarli in una di quelle giornate autunnali in cui le nubi si inspessiscono nel cielo prima del temporale, raddensando i colori.
Bravura, in seguito, si dedicherà soprattutto alla realizzazione di numerose importanti opere pubbliche. Fontane, come nella già citata esperienza della Chiocciola di Sant’Agata Feltria. Non è un caso la sua predilezione per questa forma monumentale, perché l’acqua, percorrendo la superficie musiva accentua la bellezza dei materiali impiegati creando giochi di frantumazione cromatica, iridescenze, accensioni, bagliori, che rendono il lavoro sempre diverso allo sguardo, suggerendo il continuo scorrere del tempo, il modificarsi perpetuo della luce e della forma, la transitorietà della vita. Sono tante: la Fontana del tappeto sospeso (1997) per Cervia e la Fontana delle farfalle (2003) per Sogliano sul Rubicone, ambedue ancora progettate in collaborazione di Tonino Guerra; su progetto, invece dello stesso Bravura, La luna nel pozzo (1998), a Sant’Agata Feltria; la Fontana del Parco F. Agosto (1999) a Forlì; Le impronte della memoria (2002) ancora a Sant’Agata Feltria; le Vele eseguite per la Fontana celebrativa per l’acquedotto di Romagna (2003), a Rimini.
Un discorso a parte merita Ardea Purpurea (1999; 2004), sicuramente la più importante fra le opere monumentali progettate e realizzate dal Maestro ravennate
Il 21 luglio 1998 il Maestro Riccardo Muti diresse l’Orchestra Filarmonica della Scala di Milano a Beirut, in un concerto dai chiari riferimenti simbolici organizzato da Ravenna Festival. Si trattava di un ideale gemellaggio tra Ravenna e Beirut nato, per mezzo della musica, in nome della pace. Per ricordare quello storico avvenimento le associazioni Italia-Libano di Beirut e quella italiana hanno promosso la realizzazione di un monumento celebrativo da collocarsi in una delle zone centrali di Beirut più devastate dalla guerra: Rue Verdun. L’incarico è stato affidato a Bravura, che ha deciso di progettare per l’occasione una fontana monumentale che avesse come idea di partenza, pur se sviluppata in chiave puramente astratta, l’Araba Fenice, il mitico uccello che i romani chiamavano anche Ardea Purpurea. L’opera, alta più di sei metri, la cui struttura in vetro resina è interamente rivestita di mosaico, permette di introdurre un altro capitolo fondamentale nell’esperienza dell’artista, quello dell’insegnamento; essa, infatti, è stata lavorata nei laboratori del Consorzio Provinciale per la Formazione Professionale di Ravenna, dove Bravura ha coordinato il lavoro degli esecutori, perlopiù allievi delle scuole ravennati di mosaico. La fontana è stata inaugurata il 20 novembre 1999, dopo circa un mese e mezzo di lavoro.
Dalle macerie rinasce la vita.
L’idea che viene resa dall’immagine in cui Bravura ha concretizzato la fontana è quella di una doppia struttura elicoidale. La forma utilizzata possiede in se stessa un forte senso di sviluppo ascendente che, nel suo movimento, ricorda tra l’altro l’andamento di una fiamma, evocando così in modo pressoché inequivocabile, pur se sinteticamente, la mitica Araba Fenice. L’idea della fenice come soggetto della creazione nasce dal fatto che essa rappresenta un tramite tra la vita e la morte, tra la distruzione e la rinascita. La rappresentazione avrebbe dovuto sorgere da un basamento di macerie, per significare metaforicamente la vita che rinasce dopo la distruzione, così come l’uccello leggendario rinasceva dalle proprie ceneri. Quest’idea è stata successivamente abbandonata a favore della scelta di una base più tradizionale.
L’immagine si alleggerisce progressivamente verso l’alto, si fa evanescente come fiamma, interagente con l’atmosfera circostante: una rappresentazione materica e spirituale al tempo stesso.
L’opera cambia da qualsiasi punto la si osservi, sia per le logiche progressioni della forma, sia per effetto della dinamica luministica che la anima. Il movimento decorativo che caratterizza l’opera è sempre quello degli Arazzi; esso si concretizza come una pelle che sembra essere elemento indissolubile della forma cui appartiene. La simbologia impiegata nella decorazione è una commistione di simboli Fenici, Egizi, Cristiani, Ebraici, Musulmani, quasi a volere citare tutti i popoli e le culture che hanno attraversato e attraversano il Libano forgiandone la civiltà.
Il mosaico, in quest’opera, presenta un’ineludibile presenza decorativa determinata anche dai suoi aspetti architettonici. La decorazione è fondamentale nella prassi musiva, e non è da considerarsi, come superficialmente fanno in molti, elemento negativo; essa è connaturata all’idea stessa di arte, congiunta al senso di decus – decoro – che caratterizzava, secondo gli antichi precetti, le creazioni architettoniche nel loro insieme. L’arte deve abbellire la forma, attraverso i propri aspetti decorativi, conferirle dignità di immagine. Il decorativismo di Bravura passa attraverso una personale poetica dei materiali, sempre impiegati in modo riccamente diversificato, filtrati dalla spiccata sensibilità cromatica dell’artista. Ardea, inclina al canto puro, alla pura bellezza, suggerendo un’idea di vita, di desiderio, attraverso le vibrazioni della materia e del colore, attraverso i movimenti dei segni che percorrono le superfici; la forma trova in essa una sua fusione atmosferica che si invera nella luce, luce della materia in se stessa ed anche della sua interazione con gli elementi: l’aria, l’acqua. Diceva Teilhard de Chardin, padre gesuita: “Simile a quelle materie trasparenti che possono in blocco essere illuminate da un raggio racchiusovi, il Mondo, (…), appare come impregnato di una luce interiore che ne intensifica i rilievi, la struttura e le parti profonde. Questa luce non è il chiarore superficiale percettibile anche da chi ha una sensibilità grossolana. E neppure è l’incandescenza brutale che distrugge la forma degli oggetti e ci abbaglia. E’ la calma e potente irradiazione generata dalla sintesi di tutti gli elementi del Mondo (…)”. L’immagine proposta dal brano di Teilhard de Chardin sembra potersi legare perfettamente alla rappresentazione di Bravura. L’uso della luce da lui operato è connaturato con la tecnica musiva di ambito ravennate, basato su di un impiego ragionato dell’irregolarità relativa al posizionamento delle tessere che determina un continuo frazionamento dell’elemento luministico che costituisce elemento dinamico e spirituale dell’immagine.
Importante è stato lo scambio formale e simbolico che Bravura è riuscito a creare all’interno del gruppo che lo ha aiutato nella realizzazione dell’impresa. Egli ha operato con l’apporto di qualche cartone di massima, dando però perlopiù indicazioni verbali agli esecutori, suggerendo gli sviluppi, e lasciando poi gli stessi piuttosto liberi nella loro interpretazione, quasi a volere ricordare Severini quando diceva che il mosaico “è tanto più essenzialmente mosaico, quanto più, dimenticando il cartone e ogni anteriore preparazione, inventa quel che le pietre e gli smalti vogliono inventare”.
Il desiderio era che ogni partecipante alla realizzazione del progetto lasciasse in esso la propria testimonianza creativa, pur rispettando le linee guida del Maestro relative soprattutto ai materiali e all’uso dei colori.
La genialità di Bravura sta anche nella gestione del cantiere, nel lavoro di bottega che riattualizza i rapporti Maestro allievi che caratterizzavano l’antica prassi artistica. Egli ha condotto il cantiere ritrovando al suo interno gli aspetti organizzativi della musica jazz di improvvisazione: è come se il lavoro fosse il risultato di una grande jam session.
Bravura, in questa occasione, ha collaborato anche con maestranze palestinesi, per la messa in opera in Libano del lavoro, ed è rimasto colpito dalla loro qualità, non solo per le capacità tecniche, professionali, ma soprattutto per quelle umane, il cui apporto al lavoro si è rivelato determinante; c’era in loro un’enorme partecipazione, la consapevolezza di operare per una causa comune, per qualcosa di importante.
In Bravura non c’è mai il desiderio di fare qualcosa per se stesso – il lavoro visto come fine a se stesso – ma sempre quello di rapportarsi agli altri (collaboratori – durante le fasi esecutive – e fruitori – a lavoro concluso) e sempre per ottenere un effetto empatico, un’interazione che accresca il singolo nei suoi rapporti di reciprocità con gli altri: l’opera si fa quindi metafora di tale rapporto. Non si produce nella competizione ma per mezzo della collaborazione. L’arte non procede per graduatorie gerarchiche, ma per affinità; non ci sono premi da vincere ma anime da salvare, in primo luogo la propria.
Una copia di Ardea Purpurea – anche se non si può parlare di una copia in senso stretto ma forse piuttosto di una rilettura della prima versione – è stata realizzata dall’artista per Ravenna nel 2004, per sottolineare ulteriormente il gemellaggio con Beirut.
Bravura, con questi due lavori, sembra avere voluto ricordare al mondo che la bellezza è un enorme valore, uno dei pochi che possa contribuire alla salvezza dell’uomo.
Del 2007, infine, è il ciclo di pannelli musivi per Paray Le Monial. Si tratta di mosaici dove, su uno sfondo monocromo chiaro spiccano, come gemme incastonate, magiche rappresentazioni in cui le forme si confondono. Le immagini infatti, partendo dall’idea iniziale dell’Albero, si fanno foglie, ricordando anche, grazie alla loro magnificenza cromatica, le piume di pavone.
E così si chiude un ciclo: il pavone, presso alcune culture antiche, rappresentava l’incorruttibilità dell’anima, essendo ritenuto un animale che poteva cibarsi anche di veleno.
Si torna quindi alla vita, con la sua luce e le sue tempeste, elementi contrastanti che Bravura è sempre riuscito a ricondurre in unità attraverso le logiche dell’Arte.

Michele Tosi

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